La Fiat è globale, il sindacato no

Fri, 14/02/2014 - 12:57
di
Thomas Müntzer

Ripercorrere il vecchio adagio di Gianni Agnelli secondo cui “quello che va bene per la Fiat va bene per l’Italia” può essere utile per giudicare correttamente l'acquisizione della Chysler. La grande stampa mainstream si è sbracciata in elogi e inchini al genio di Marchionne, inneggiando al successo nazionale e sottolineando le grandi virtù del “sistema Italia”. Quale sia, però, questo sistema non lo dice. In realtà, Marchionne ha fatto tutto da solo e il grosso dell'operazione è riuscita grazie all'appoggio, assoluto e convinto, di Barak Obama, prima, e del sindacato dei metalmeccanici, Uaw, poi.

L’accordo riguarda il 41,4616% della casa americana detenuto da Veba Trust e acquistato dalla controllata Usa della Fiat, la Fiat North America Llc (Fna). A fronte della vendita della partecipazione il Veba Trust riceverà un corrispettivo complessivo pari a 3,65 miliardi di dollari Usa. Ma non saranno tutti soldi che fuoriescono dai forzieri degli Agnelli. Solo 1,75 miliardi, infatti, verranno versati “cash” mentre 1,9 miliardi, cioè più della metà, saranno il frutto “di un’erogazione straordinaria che Chrysler Group pagherà a tutti i soci”. L’azienda, cioè, verserà un dividendo straordinario la cui quota di pertinenza della Fiat verrà girata al Veba. Al quale, inoltre, sempre dalle casse Chrysler, verranno versati altri 700 milioni, scaglionati in quattro anni, che in parte saranno girati ai dipendenti in cambio di collaborazione aziendale e applicazione del nuovo sistema lavorativo World Class Manifacturing. L'abilità di Marchionne è dunque un’abile operazione finanziaria che consente alla società degli Agnelli di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo.

In questo caso, quello che va bene alla Fiat va bene ai suoi azionisti. L'impennata del titolo alla borsa di Milano e le aspettative che crea il gruppo da oltre 4 milioni di vetture prodotte nel mondo lo dimostrano. Mai come in questo caso a un'analisi concreta si è sovrapposta una lettura politica che fa perdere di vista i problemi concreti. Marchionne viene incensato perché il progetto più coerente e lucido di piegare le ultime conquiste operaie in Italia è venuto da lui e, fondamentalmente, è riuscito. Se è vero che la Fiom ha ottenuto il successo costituzionale con il ripristino dei suoi diritti sindacali in fabbrica è anche vero che il contratto Fiat non solo esiste da due anni ma, nel frattempo, è stato trasferito anche nel contratto dei metalmeccanici. I ritmi, la riduzione delle pause, il controllo dello sciopero e delle malattie sono divenuti punti acquisiti che difficilmente verranno rimessi in discussione. Se un effetto immediato il successo della Chrysler lo avrà sarà quello di livellare ancora di più le condizioni dei lavoratori. Anche perché una compressione analoga è già avvenuta negli Stati Uniti. Si legga il riassunto fatto dalla Cisl di quanto ottenuto da Marchionne dai metalmeccanici della Uaw. “Tra le concessioni per il contenimento dei costi, l'accordo (Chrysler-Uaw, ndr.) prevede alcuni interventi in materia di orari e trattamenti economici:

- computo delle maggiorazioni di straordinario solo dopo la quarantesima ora;
- rinuncia, negli anni 2010 e 2011, alla festività successiva al giorno di Pasqua;
- riduzione dei minuti di pausa al giorno da 46 a 40;
- sospensione del pagamento dei bonus legati alla performance e quelli natalizi previsti nel 2009 e 2010;
- uso più estensivo del part-time;
- limitazioni dei periodi di integrazione salariale (50 per cento) in caso di disoccupazione temporanea;
- uso di 2 settimane di ferie per periodi di chiusura decisi dall'azienda;
- riduzione del numero dei rappresentanti dei lavoratori eletti.
L'accordo, inoltre, prevede una razionalizzazione del sistema di classificazione e un coinvolgimento dei sindacati nell'implementazione del nuovo sistema di organizzazione del lavoro, che integrerà il FIAT's World Class Manufacturing con il Chrysler Workplace Organization Model. La Chrysler, per confermare l'impegno reciproco ai sacrifici finalizzati al recupero dell'azienda, fornirà trimestralmente informazioni ai sindacati sul contributo dei dirigenti, manager, concessionari e fornitori; coinvolgerà in anticipo i sindacati su alcune decisioni concernenti i prodotti, i programmi produttivi e le relazioni con la catena dei fornitori, favorendo il dialogo sociale tra le parti. In questa prospettiva è stata firmata una clausola che impegna i sindacati a non avanzare rivendicazioni o proclamare scioperi fino al 2015”. A questo va aggiunto il dato più saliente: secondo quanto afferma uno studio della Heritage Foundation (think-tank conservatore, che ritiene che i contribuenti Usa 'non dovrebbero essere tassati per garantire il benessere di pochi (ndr: operai)', il costo orario dei salari (comprensivo di contributi pensionistici e di previdenza) si sarebbe ridotto da 75 dollari l'ora del 2006 ai 52 del 2011. Un taglio del 30%, molto più accentuato per i nuovi assunti.

Certo, la Chrysler, come la General Motors, era fallita nel 2008. Per salvarla ci sono voluti circa 10 miliardi di soldi pubblici oltre alle “concessioni” sindacali. Il genio di Marchionne ha beneficiato di un ampio plafond di statalismo tanto inviso ai liberisti di mezzo mondo.

Che succedere ora? La fusione Chrysler-Fiat appare scontata. Analoga procedura è stata utilizzata nel caso di Fiat Industrial, scorporata da Fiat Auto e poi incorporata nell'olandese Cnh che ha sede in Gran Bretagna e ottiene la maggior parte del suo fatturato tra Usa e Europa. La questione su dove verrà piazzato il centro direzionale, se a Torino o a Detroit, a questo punto è del tutto marginale. Per ragioni di immagine e di propaganda gli Agnelli potrebbero essere spinti a salvaguardare il Lingotto ma la questione sostanziale sarà quali scelte verranno fatte.

Dei 4,2 milioni di vetture di cui può valersi il nuovo gruppo solo 600 mila sono state prodotte in Italia nel 2013, contando anche i veicoli commerciali. Il grosso viene venduto in Sudamerica e negli Stati Uniti. La realtà è già esplicita. Per quanto riguarda l'Italia, su circa 30 mila addetti del settore auto, un terzo è quasi sempre in cassa integrazione e solo tre stabilimenti, Melfi, Pomigliano e Grugliasco, hanno una missione ben definita. Mirafiori è ancora avvolto nelle nebbie mentre Cassino aspetta di conoscere la propria sorte. Diverso il caso della Sevel dove si produce il Ducato, il furgone commerciale in partnership con la Psa-Citroen.

La centralità statunitense, invece, è data da più fattori. Un mercato che si è ripreso prima di tutti gli altri, grazie alle iniezioni di denaro pubblico da parte di Obama, e un asse tra governo e sindacato, finalizzato a salvare l'industria automobilista, che ha contrattato modelli, stabilimenti, posti di lavoro. Tutto questo manca in Italia mentre nel resto d'Europa, in particolare all'Est, i copiosi aiuti pubblici (come in Serbia) hanno indotto la Fiat a spostare le produzioni.

Tutto questo dovrebbe indurre a riflettere molto più seriamente di quanto sia mai stato fatto, sulla totale inadeguatezza dei sindacati a gestire aziende iper-globalizzate che riescono a gestire la produzione sull'intero arco del globo. Si pensi all'impossibilità e alla totale incomunicabilità che esiste, ad esempio, tra il sindacato Usa, quello italiano o quello dell'Europa dell'est. Il loro coordinamento, ormai decisivo, sembra un'impresa immane dati gli attuali punti di partenza. Se c'è una lezione che la vicenda Marchionne consegna ai lavoratori e lavoratrici è che il piano dell'iniziativa politica e sindacale è oggi del tutto disallineato rispetto alle reali necessità del conflitto.

Il successo, in ogni caso, potrebbe essere solo momentaneo. Come ha notato un giornale insospettabile, come il Wall Street Journal, Marchionne ha utilizzato un “trucco” acquistando il 100% di Chrysler prelevando fondi dalla Chrysler stessa. In questo modo ha aumentato l'indebitamento togliendo risorse agli investimenti. Come afferma la banca Citigroup, “continuiamo ad avere preoccupazioni sulla sostenibilità del debito” visto che la Fiat resta una delle case automobilistiche più indebitate al mondo: 28 miliardi di euro su cui si pagano ogni anno quasi 2 miliardi di interessi.

In ogni caso, quello che è avvenuto conferma che d’ora in avanti il centro di gravità delle decisioni si sposta definitivamente. L’Italia è davvero una provincia e come tale verrà gestita.